“Les chemines de la Sagesse (II)”
Capitolo 2 – parte 1°- Diventare ciò che siamo
1972 – di Arnaud Desjardins
Arnaud Desjardins
La metafisica orientale, risolutamente ignorata per lungo tempo dai filosofi di professione, trova adesso ascolto presso un’udienza assai vasta. Le nozioni di karma, cioè gli atti e le loro conseguenze, di maya, generalmente tradotta con illusione, di samadhi, stato di coscienza liberata dalle categorie del tempo, dello spazio e della causalità, sono prese molto sul serio da molti. Questa metafisica ci insegna anche che noi viviamo come ciechi in un mondo irreale e illusorio, che siamo prigionieri dell’ignoranza, che “dormiamo” e che da questo provengono tutti i nostri mali e tutte le nostre sofferenze.
Non ci sfugge che alcune di queste dichiarazioni sono ben vicine a quelle di Cristo. Queste affermazioni sono presentate come delle verità di cui possiamo fare l’esperienza personale immediata, l’esperienza “liberatrice”. Hanno dalla loro parte il prestigio dell’antichità, e ciò che i Rishis, i saggi delle Upanishad, insegnavano già 3000 anni fa ai loro discepoli, é trasmesso ancora al giorno d’oggi da maestri essi stessi liberati. Questi insegnamenti, noi occidentali li scopriamo con una mentalità che si e’ formata in un mondo assolutamente diverso. Ora, come approfittarne, senza travestirci da orientali e senza iniziare la nostra ricerca della verità con la menzogna che consisterebbe nel rinnegare ciò che siamo? Io vorrei provare a mostrare in che cosa questa tradizione apparentemente estranea ci concerna personalmente.
Tutte le dottrine orientali insegnano come liberarsi dalla sofferenza. La sofferenza proviene sempre dal rifiutare i fatti. Io vorrei questo, ma questo non accade, dunque rifiuto il fatto che questo non accada e ne soffro, o al contrario ho timore di quello, quello accade, io rifiuto il fatto che quello sia accaduto e soffro. Per svegliarsi alla realtà il fatto fondamentale da accettare e’ quello della trasformazione incessante di ogni cosa. Lo si può esprimere come si vuole: in versi, in prosa, con delle sciarade filosofiche, si può dire che nulla dura, che tutto e’ transitorio, o con una risonanza buddistica “che tutto é impermanente”, il fatto é là: ciò che noi chiamiamo l’essere é il divenire, il flusso, la corrente, il gioco perpetuo della creazione e della distruzione all’infinito. Gli esseri umani che ci circondano, quelli che amiamo, e quelli che detestiamo, non sono che dei processi di cambiamento e colui o colei a cui ci siamo sentiti cosi’ vicini, ecco, in un istante, é già divenuto/a un altro, un’altra. Questa instabilità, questo carattere effimero di tutta la creazione sfuggono all’uomo ordinario.
E’ in questo, essenzialmente che consiste l’ignoranza, che gli orientali dicono essere la sorgente di tutti i mali. Noi ci sbagliamo e crediamo in un mondo solido e tangibile. Questa ignoranza ha come immediati corollari, l’attaccamento e la dipendenza. Noi vogliamo poter contare su ciò che ci importa, noi vogliamo che i nostri beni siano durevoli, sia che si tratti delle gomme dell’auto o di un paio di scarpe. Noi vogliamo che certi istanti benedetti si prolunghino per l’eternità. Noi vogliamo che gli esseri che ci circondano rimangano gli stessi. Questo costituirebbe certamente un mondo rassicurante, ma non e’ così: nulla resta mai identico a se’ stesso e di conseguenza l’adattarsi perfettamente alla generale impermanenza, é la condizione sine qua non di una felicità e di una pace che sono – esse – durevoli.
Non occorre una preparazione particolare per constatare che le persone invecchiano e che le foglie degli alberi cadono, ma in un certo stato di coscienza o di visione della realtà e’ possibile percepire che tutta la creazione e’ in movimento, percepire la morte e la nascita simultanee di ogni elemento che compone ogni oggetto e ogni persona. Questa esperienza si situa al di là del tempo, nell’eterno presente, poiché qualunque durata di qualunque cosa ne e’ scomparsa, il tempo non esiste che per colui che dimora, per colui che crede di rimanere, di dimorare, di essere sempre uguale a se’ stesso, per colui che crede che le cose rimangono fisse intorno a lui: io sono stato, sono, sarò. Il cammino verso la liberazione dal tempo, passa attraverso la distruzione di questa ignoranza che ci rende ciechi al cambiamento e all’istantaneità o, più esattamente, all’assenza stessa di qualunque istante e di qualunque punto d’appoggio fisso. Questa non e’ una concezione metafisica ma l’esperienza vissuta da innumerevoli saggi di oggi e di discepoli in questi stati superiori di coscienza ai quali sia i buddisti che gli indù danno il nome di Samadhi.
Il termine stesso di cambiamento può condurre a una falsa comprensione, come se ad un certo momento esistesse una realtà che si trasforma, in un’altra realtà percepibile in un momento ulteriore, un’entità e poi un’altra entità. No, il processo non si arresta mai. Non c’é che movimento, che dinamismo, non c’é che il cambiamento, ma nulla che cambia. E’ soltanto in questo senso che non esiste ne’ il tempo, ne’ la durata. L’uomo non e’ mai identico, ma non e’ nemmeno mai differente, “non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume”, eppure la Senna e’ sempre la Senna “Ne’ lo stesso ne’ un altro”. Dicono i buddisti, illustrando questo paradosso con il celebre esempio della fiamma di una lampada ad olio accesa tutta la notte: e’ la stessa fiamma che bruciava la sera e che brucia all’alba? Si può dunque parlare di continuità, di corrente e di legame o di successione fra le cause e gli effetti, anche se non c’é nessuno per produrre una causa e nessuno per raccogliere gli effetti. Se si considerano queste affermazioni come idee filosofiche non possono che sembrare vane e confuse. Si tratta di tentativi per descrivere in parole la verità. Una verità che può essere vissuta e sperimentata come un autentico risveglio.
Ma il mentale pone immediatamente una domanda: se nulla esiste, che cosa, secondo gli orientali si reincarna o trasmigra? Poveri orientali! Di fatto sono d’accordo ma non lo esprimono tutti allo stesso modo. Cosi’ i discepoli che si tengono strettamente alla lettera delle parole, si lanciano l’anatema da una setta all’altra e questo può durare, dura, 2500 anni. Ciò che si reincarna e’ la continuità delle correnti, dei pensieri e delle emozioni, la continuità dei desideri. E’ questa stessa continuità che produce la memoria. Quando si parla della Francia o del popolo francese, si può dire che questa Francia e questo popolo sono gli stessi di 100 o 200 anni fa? No. Eppure c’é bene una Francia ed un popolo francese. Gli italiani del XX secolo sono gli stessi dei Romani di 2000 anni fa? No. Eppure l’Italia esiste come continuità della Roma antica, anche se nessun elemento e’ rimasto lo stesso. E’ lo stesso nella catena delle incarnazioni successive, ma la continuità e’ quella di un desiderio e di un attaccamento individuale e non collettivo. Il nostro momento di coscienza attuale e’ la continuazione del nostro momento di coscienza precedente: il quale era la continuazione ecc. ecc. Di conseguenza, il nostro momento di coscienza attuale, in un certo modo, e’ già cominciato da molto tempo, da un tempo infinito, in un passato senza inizio. E già prepara il prossimo momento di coscienza e quello che verrà fra tanto, tanto tempo, in un avvenire infinito. Infinito salvo che intervengano, giustamente, la liberazione o il nirvana. Ma nello stesso tempo per l’inconscio e per il super-conscio, tutto esiste nella simultaneità. E l’eternità, tutte le correnti sono percepite completamente, interamente dai tempi della loro origine.
Questi dinamismi interiori, personali, non sono i soli che intervengono: senza interruzione incontrano innumerevoli altri processi esteriori a noi. Anzitutto alla concezione, il flusso che si incarna, urta e si mescola con i flussi costituenti il padre e la madre. E questo già nell’ambivalenza dei movimenti di attrazione e di repulsione. E’ ciò che determina l’ereditarietà. In seguito l’ambiente, ed in particolare l’educazione, giocano il loro ruolo primordiale in un destino umano, e contribuiscono anche alla differenza dei diversi destini e all’ineguaglianza fra gli esseri. Cosi’ la vita non e’ che una lunga serie di azioni e di reazioni di correnti diverse. Tutto e’ in ogni momento messo in questione. L’uomo, tuttavia, si percepisce lui stesso come una individualità, come un ego, con una coscienza della sua identità.
E’ un’illusione, tanto difficile sia da definire che da descrivere. La’ dove noi diciamo rendere l’anima, gli indù dicono abbandonare il corpo. Così un’anima individuale jiva cambierebbe corpo attraverso le incarnazioni successive, come si cambia di vestito e ancora una volta non e’ che un modo di parlare, un linguaggio convenzionale. Un’anima immutabile, significherebbe un’anima non sottoposta a cambiamenti, come potrebbe dunque evolvere e trasformarsi? Ogni volta che una descrizione relativa, utilizzata per la comodità di un insegnamento pratico e concreto, diventa non più uno strumento o un trampolino, ma un concetto fisso, un maestro la contraddice e ne mostra la fragilità. Il solo insegnamento che abbia un valore di risveglio e’ quello che un discepolo particolare riceve personalmente dal suo maestro. I libri sono là per far sorgere delle questioni più che per rispondervi, per dare voglia di cercare più che per indicare come cercare. Essere liberati del proprio ego, dei propri limiti, si vive come una morte e una resurrezione.
Aderendo ad una affermazione, qualunque essa sia, che non corrisponda ad una esperienza personale certa, noi appesantiamo ancora il fardello dei nostri concetti e delle nostre opinioni, dunque il fardello del nostro mentale. Il cammino verso la verità assoluta si muove, va, da verità relativa a verità relativa o dipendente. Lo studio di se’ si fa su se’ stessi, sulla materia vivente, sul campo di battaglia, come dice la Bhagavad Gita, dove si affrontano le nostre tendenze nemiche, che come i Pandavase Kauravas sono dei parenti, dei cugini, cioè hanno la stessa unica origine. Dire che non c’é niente che cambia, significa dire che non c’é niente che sia, che non c’è niente. Niente, salvo ciò che gli indù chiamano Brahaman, i maianisti Shunyata e di cui il Buddha ha detto “esiste certo un non nato, non fatto, non divenuto”. Se noi potessimo constatare che “noi” nemmeno esistiamo, lo si comprende bene, saremmo liberati da tutti i nostri problemi. Ora questa incredibile realizzazione, incredibile e, penso, insensata per il lettore occidentale contemporaneo, ha avuto i suoi testimoni in ogni epoca, compresa la nostra.
Non voglio ripetere tutto ciò che ho scritto in altre opere a proposito del concetto indù dell’ego e tuttavia e’ la chiave del Vedanta. L’ego e’ la certezza, Io sono Io, un nome e una forma Nama e Rupa, sottomessi alla durata e separati dagli altri ego. E’ la coscienza individuale del tempo e della molteplicità. Il saggio, il Jivan Mukta, cioè il liberato in vita, e’ Jivathan, non ha più ego. La sua coscienza, infinita, illimitata, si esprime con il puro Io sono “Egoless” o “Egofree”, Aham. E non più: Io sono un individuo, Ahamkar. Ogni uomo, ogni donna che conservi un ego, rimane sottomesso al desiderio e alla paura, inevitabile finche’ sussiste il dualismo del me e del non-me.
Da che il bebè inizia ad uscire dallo stato di grazia delle prime settimane o dei primi mesi, e dalla relazione idillica con sua madre, il suo ego si forma per differenziazione. Ogni sofferenza, ogni frustrazione, rinforza questo ego. L’ego del bambino domanda. E domanda tanto più quanto più ha l’impressione di ricevere meno. Poiché il bebè non aveva altro da fare che lasciarsi curare, lavare, nutrire, ammirare, il bambino accetta difficilmente o addirittura non accetta proprio che questa magnifica situazione non continui all’infinito. Dopo avere, all’inizio, incontrato soltanto il si’, adesso deve confrontarsi con il no. Qui dovrebbe, “normalmente”, intervenire un’educazione giusta, che porti il bimbo a tener conto dell’esistenza degli altri, a trovare naturale che questi esistano non soltanto per lui e in sua funzione. E’ il processo “normale” di crescita che per un allargamento progressivo degli interessi conduce allo stato veramente adulto. Il bambino tiene conto dei desideri dei suoi amici, l’adolescente di quelli dei suoi fratelli e sorelle, marito e moglie imparano a vivere l’uno per l’altro e a vivere insieme per i loro figli, più tardi a diventare un padre e una madre per tutti quelli che si rivolgono a loro. Ma occorre che l’adulto non conservi in se’ la domanda disperata di un bambino frustrato, che lo condanna a reclamare sempre o a sentirsi perduto se non ci si occupa di lui o se lo si critica. Cosi’ la via e’ anzitutto una questione di crescita interiore, cioè dall’egoismo, dalla ristrettezza e dalla meschinità fino ad una comprensione e ad un amore universali. Colui che non si aspetta nulla e non dipende da nulla e’ uno con tutto, e accede alla realizzazione dell’eternità e del non-dualismo. Per divenire indipendenti, occorre dipendere da se’ e non dall’amore e dalla comprensione che gli altri ci testimoniano o no. Colui che ha tutta la sua dipendenza in se’, non ha più emozioni, ma soltanto il sentimento di amore del prossimo a cui egli riconosce sempre il diritto di essere diverso da lui stesso. Il bimbo dipendente dai genitori e’ divenuto adulto e su di lui altri si possono appoggiare per imparare essi stessi a crescere.
Liberato. Liberazione. Il saggio e’ liberato. Ma cosa vuol dire, infine? Liberato dal senso dell’individualità, dal senso dell’individualità separata, ovvero dell’individualità separante dell’ego. Libero significa infinito. Il sentimento di infinito e’ nell’uomo che non può sentirsi soddisfatto nell’essere condizionato. L’uomo e’ tale perché vuole sempre andare al di la’ dei limiti e al di la’ di ogni finitezza, di ogni confine. Soltanto allora un uomo diventa l’uomo, l’infinito che non viene da nessuna parte e non va da nessuna parte. Il saggio vede tutto, ogni cosa e’ in lui. E lui in tutto o in ogni cosa.
L’uomo non diventa realmente se stesso se non sorpassando tutte le condizioni. Egli realizza il se, atman. Lo Adhyatma yoga e’ il cammino verso il se’ attraverso l’eliminazione di tutto ciò che non e’ il se. La realizzazione dell’infinito implica l’assenza di ogni desiderio: desiderio di prendere o di ricevere, desiderio di dare, desiderio di fare. Il desiderio e’ l’espressione del senso della separazione. Ricevere e dare sussistono in quanto noi ci sentiamo separati da qualcuno o da qualcosa d’altro e questo produce sempre una paura inconscia. L’uomo ordinario rifiuta di essere infinito per poter rimanere un qualcuno di autonomo. Ma allo stesso tempo soffoca in questa limitazione e vuole in qualche modo riguadagnare l’infinito, proiettandosi dappertutto, identificandosi, rifiutando di vedere le differenze e cioè esattamente fare l’inverso della realizzazione dell’unita’. Ne consegue obbligatoriamente che noi non siamo mai perfettamente a posto, siamo sempre un po’ falsati, mai perfettamente a nostro agio. Al contrario il saggio, qualunque sia il momento, il luogo, le circostanze, e’ sempre nel posto che gli conviene. E’ libero dall’azione e dalla reazione perché e’ libero dalla dialettica del prendere e dare. La realtà primordiale assoluta e’ l’equilibrio, il riposo. La natura tende incessantemente a ritornare a questa pace. Ogni volta che c’é un’azione, appare una reazione per neutralizzarla. L’esempio classico e’ quello del pendolo oscillante attorno al suo asse o dei piatti della bilancia.
L’azione di dare neutralizza quella di ricevere, la compensa per annullarla. Poiché il saggio non prova il bisogno di ricevere, non prova neppure il bisogno di dare; se dà lo fa liberamente in risposta alla situazione. In una maniera assoluta il saggio ha ricevuto quello che doveva ricevere, dato quello che aveva da dare, fatto quello che aveva da fare. Nel relativo ogni uomo può provare oggi per il momento, ho dato, ho ottenuto, ho fatto. Può sentire, in una situazione particolare, la libertà che viene dall’assenza del desiderio. E’ un primo gustare l’assenza del desiderio, la libertà assoluta. Ma la situazione generale dell’uomo ancora sulla via e’ di compensare il suo senso della separazione, proiettandosi in tutti i suoi doni e in tutte le sue richieste.
Se e’ per lo meno difficile percepire di colpo che niente di ciò che ci circonda esiste, e’ per contro gradualmente possibile tentare un po’ seriamente di studiare noi stessi e di fare un po’ conoscenza con ciò che chiamiamo io, me o la nostra coscienza. Prima di poter raggiungere un livello di coscienza che trascenda la nostra percezione abituale e che possa essere considerato come sopranormale, e’ indispensabile, inevitabile, realizzare innanzitutto pienamente la perfezione del normale. Un vaso non può traboccare se non quando e’ pieno. Noi non possiamo avere delle risposte reali alle domande fondamentali, sulla vita, sulla morte, sulla sopravvivenza, a meno che il nostro essere attuale sia innanzi tutto trasformato. Se vi dico, e ve lo dico, che c’é un’esistenza prima di questa e che ce n’e’ una dopo, questo non vi dà alcuna certezza personale. Queste risposte non possono venire se non come una presa di coscienza attraverso un essere trasformato. Se ci fosse dato oggi, in questo momento, come siamo ora organicamente, emozionalmente, mentalmente, di accedere alla realtà metafisica, non la sopporteremmo, esattamente come un apparecchio elettrico funzionante a 110 volt non può essere attaccato su 300 o 3000 volt.
Ma in cosa consiste questa trasformazione? Dove e come può cominciare per voi oggi, subito, adesso? Anzitutto situandovi senza menzogna nel vostro punto di partenza e acquisendo una conoscenza veritiera di ciò che siete. Che cosa scopriamo? Una corrente di pensieri e di emozioni concernenti un corpo fisico che e’ anche in perpetua evoluzione, rinnovamento e degradazione. Il più sovente io o esso designa solamente questo corpo fisico: io ho preso il treno ieri sera, oppure io indica lo stato interiore attuale, il pensiero e l’emozione del momento: Oh! sono così felice. Questo corpo, questi pensieri e queste emozioni sono legate, reagiscono gli uni sugli altri ed obbediscono a delle leggi che l’uomo non conosce naturalmente e ignora finche’ non si mette a studiarle. Praticamente l’uomo e’ estremamente variabile e nello stesso tempo e’ assai poco flessibile e adattabile, prigioniero di costanti psicologiche più o meno incoscienti, che costituiscono il suo limite e la sua prigione. L’uomo e’ composto da alcune correnti nascoste di cui certe, in certi momenti, appaiono alla superficie. Le sue possibilità, la sua disponibilità sono estremamente strette e si ritrova sempre in uno dei personaggi abituali. Se l’acqua può prendere tutte le forme di tutti i vasi, l’uomo e’ prigioniero di un repertorio limitato di ruoli e di abitudini. Il saggio, lui, e’ simile all’acqua.
La prima realtà trasformabile che si impone a tutti all’inizio della via, e’ che noi non siamo unificati ma molteplici e contraddittori. Mme David-Neel citava spesso la comparazione buddista dell’essere umano con un parlamento, dove le sessioni sono spesso confuse e si fanno e disfano le maggioranze. Noi siamo unificati solo quando le nostre decisioni o le parole che pronunciamo implicano l’unanimità dei membri del Parlamento. Cristo ha detto: Che il tuo sì sia sì, che il tuo no sia no. E lo siamo ugualmente, unificati, allorquando la maggioranza dei deputati prende una decisione ben conoscendo l’opposizione della minoranza. In questo modo anche la totalità di noi stessi e’ presente nella nostra azione e dunque questa ci coinvolge realmente. E’ già un grande passo sulla via aver visto e ammesso che siamo contraddittori. Perché, di fatto, parecchie persone non lo vogliono riconoscere. Il dramma della maggior parte delle esistenze e’ che un gruppo del Parlamento, dunque un Io parziale, parla in nome della totalità, senza averne il diritto. E che un altro Io, cioè un altro gruppo, rifiuta di mettere in atto il progetto o la decisione. L’uomo e’ simile a un caleidoscopio in cui la pur minima scossa ricompone gli elementi in un ordine nuovo. Alle 11 del mattino noi vogliamo una cosa, alle tre del pomeriggio ne vogliamo un’altra incompatibile con la prima. Il lunedì siamo sicuri, il martedì abbiamo dei dubbi. Noi oscilliamo incessantemente e persistiamo imperturbabilmente a dire io, io voglio, io farò. C’é un io che si mette in gioco, che si coinvolge e un altro io che deve tenere il gioco e che non può perché non e’ stato nemmeno consultato, quando la decisione e’ stata presa. Noi, poveri noi, non comprendiamo cosa succede e come mai abbiamo potuto a questo punto un giorno vedere le cose in una certa maniera e a qual punto vederle differenti qualche settimana o qualche ora più tardi. Noi non comprendiamo che una cosa e cioè che non possiamo contare nemmeno su noi stessi e questo ha come primo effetto di farci vivere nel timore.
Non si tratta dunque del problema della divisione e dell’unificazione in generale, ma della nostra divisione e della nostra unificazione personale; noi non possiamo affrontarla che tramite degli esempi o dei campioni concreti, vissuti. Ciò che é in noi allo stato latente, allo stato non manifesto é là. Ed é là anche se noi gli impediamo di manifestarsi, ed anche senza che alcun Io responsabile e indipendente non l’abbia coscientemente voluto, questo si manifesterà ad un tratto. Ed ogni volta questo momento di noi stessi, questo aspetto parziale di noi stessi, dice: IO. Come se veramente avesse il diritto di parlare in nome nostro. Migliaia di persone si appassionano per l’alta metafisica o la meditazione, senza voler accettare questa verità evidente: dire IO é mentire, per l’uomo ordinario é mentire. Per l’uomo che progredisce sulla via, é mentire ogni volta un po’ meno, poiché conoscendosi sempre meglio, ha sempre più il diritto di dire IO, un IO che lo coinvolge veramente nel suo insieme. La causa della sofferenza a tutti i livelli e’ sempre il rifiuto, dunque il conflitto, dunque il contrario della pace. Più qualcuno rifiuta di tener conto di qualcosa che e’ in lui, e più vuole negarlo, più si spossa, si sfinisce e più aspira, invano, alla pace. Il suo disagio interiore e’ insopportabile ed egli vuole fuggire questo disagio, creando cosi’ un nuovo conflitto. E’ la sorgente delle reazioni cieche che creano senza fine altre reazioni. L’uomo e’ sempre più prigioniero, ma si aggrappa ad una illusione di libertà e di indipendenza. Di fatto e’ separato dalle sorgenti profonde della vita, e una sola cosa avrà valore per lui: ciò che gli dà un momento di pace e di unificazione apparente, che sia il lavoro, la sessualità, il gioco, lo sport.
Poiché nulla esiste e nulla dura, e’ evidente che la credenza nella realtà e nella permanenza delle cose e degli esseri e’ un errore, una visione falsa, una menzogna. E’ anche evidente che una tale ignoranza non offre alcuna sicurezza e non può produrre che sofferenza. La grande illusione e’ di credere alla felicita’ o almeno ad una certa felicita’. La malattia, la separazione, la morte, la delusione, il tradimento, la rovina e tutti i dolori fisici talvolta intollerabili, sono l’altra faccia inevitabile del benessere, delle gioie e dei piaceri. La vita ci offre il miele su una lama di rasoio e il gusto del miele si trasforma in gusto di sangue, quando richiudiamo la bocca. Poiché questi insegnamenti orientali hanno sempre guardato in faccia la realtà della sofferenza, gli occidentali moderni li hanno tacciati una volta per tutte di pessimismo. Da noi, come ognuno sa, tutto è per il meglio nel migliore dei mondi, o piuttosto, nella migliore delle società di consumo, possibile. L’immagine della pubblicità è quella del sorriso e della gioia di vivere, ma in realtà quale disperazione, dappertutto, sempre di più’, rivelano le nevrosi, le depressioni, la violenza, l’uso dei tranquillanti e la fuga da se stessi in imprese insensate che non conducono altro che alla necessità di altre fughe. Il popolo più profondamente impregnato del pessimismo buddhista che ho conosciuto, cioè i tibetani rifugiati in India, è un popolo più felice e più gaio nella sua miseria che il gaio popolo di Parigi. Gli insegnamenti orientali non sono pessimisti, perché indicano come sfuggire totalmente e definitivamente alla sofferenza.
La nostra prigione è interiore. Di questa prigione, soltanto la saggezza tradizionale, la philosophia perennis, sa come aprirne la porta. Questa saggezza porta un nome: la conoscenza di sé. Se c’è prigione, la libertà è possibile. Ma non c’è alcuna liberazione possibile nella menzogna e nel trucco, ed é questa menzogna che tutti gli insegnamenti tradizionali hanno anche chiamato il “sonno”.
Da quando si presta attenzione al gioco della gioia e del dolore, che motiva tutte le azioni degli uomini, una constatazione si impone, certo ben conosciuta, ma da cui ben pochi sanno trarre delle conclusioni. Felicità e infelicità sono sostanzialmente soggettivi: un aumento di 300 FF al mese è una grande gioia per un operaio, ma sarebbe una terribile delusione per un direttore che diventasse direttore generale. La gioia e la pena si apprezzano sempre facendo il paragone e si esprimono in termini di più e di meno.
L’essere umano la cui vera natura è infinita e illimitata, Atma, non accetta mai la sua piccolezza e la sua ristrettezza. Per lui la contrazione o diminuzione significa sofferenza, l’espansione o l’accrescimento significano piacere. Nella mediocrità dell’ego, il sé ricorda la sua grandezza. L’uomo sente profondamente l’inferiorità, la mancanza, il bisogno. E’ la sorgente unica di ogni desiderio. La soddisfazione del desiderio fondamentale di “più” non puo’ venire che dalla crescita dell’essere. Ma l’uomo ordinario risente la sofferenza della piccolezza nell’avere meno, avere meno di ciò che avevo prima o avere meno di quello che hanno gli altri. La realizzazione spirituale, quella dell’identità del se’ con l’assoluto, Atman e Brahman, e’ la realizzazione della grandezza per eccellenza; via via che si sviluppa la vera crescita dell’essere, il bisogno di avere denaro, conoscenze, relazioni, successi, idee originali, ecc. e dunque l’egoismo, diminuiscono in maniera proporzionale, è la rinuncia naturale. Esseri che apparentemente hanno tutto per “essere felici”, vivono nella disperazione e nell’angoscia e pur tuttavia perseverano nella stessa linea di ricerca delle gioie e di fuga dalle sofferenze così come la concepiscono. Questa stessa linea che li ha già tanto ingannati e delusi. Ciò che tutti gli insegnamenti religiosi ed esoterici hanno chiamato “la via” è per coloro che si sono stufati di sbagliarsi. Finche’ un uomo o una donna credono ancora che questa volta, o la volta prossima, continuando sempre allo stesso modo, finalmente si riuscirà, finalmente saremo felici, la via di cio’ che e’ vero e giusto non si apre ancora davanti ad essi. La via comincia per un rovesciamento completo del nostro modo di vedere, una conversione, una metanoia, dicono gli Evangeli.
Andiamo agli estremi. Esistono degli esseri che hanno tutto e sono disperati ed esistono degli esseri disgraziati, poveri, infermi e che tuttavia sprigionano gioia. La felicità o la sofferenza, motori di ogni esistenza umana e di ogni ambizione, sono delle qualità psichiche, che non dipendono che apparentemente dalle condizioni esterne. Felicità o infelicità sono l’espressione di ciò che noi siamo, non il risultato di ciò che abbiamo. Presto o tardi, in questa vita o in un’altra, “viene un momento in cui l’uomo sa, in qualche modo mi sto sbagliando, sono io che devo cambiare, non c’é altra soluzione.” Allora soltanto si mette veramente alla ricerca di un maestro e di un insegnamento. Allora soltanto la via si apre davanti a lui. Il meccanismo della sofferenza si trova nella nostra dipendenza di fronte a cose o esseri esterni a noi. Dipendenza che costituisce un attaccamento, ma che è sovente definita, mascherata dal nome amore. Se la mia felicità dipende da elementi che sento come altri da me, non ho più alcuna sicurezza. I beni materiali possono essere perduti, distrutti, rubati. Quanto agli esseri umani: io mi aspetto da loro qualcosa, ma non è in mio poter far sì che essi me lo diano. Questa attesa, costantemente espressa dalla frase “non si può mai contare su nessuno”, è una delle piu’ grandi sorgenti di delusione e di tristezza. Che lo si voglia o no, l’altro è diverso da me, mutevole, mosso dai suoi propri meccanismi, desideri, attaccamenti, attese. Mi sfugge. E siamo due.
In cosa consiste dunque tutta l’esistenza umana? In un tentativo di soddisfare i desideri, qualunque essi siano. Dipingere, danzare, scrivere, far l’amore, guadagnare soldi, raggiungere il proprio amante, essere celebre, alleviare la miseria degli altri, fare la rivoluzione, predicare le buone dottrine, dimagrire, meditare, vendicarsi di quel brutto bastardo, difendere una causa giusta, studiare, insegnare, mostrare che si e’ qualcuno, salvare il mondo, essere amati.
L’uomo o la donna che si ingaggia sulla via ha come desiderio primordiale quello molto semplice di essere felice, ovvero sfuggire alla sofferenza. Si sa che si è arrivati alla fine del cammino quando si è 24 ore su 24, e senza mai un’oscillazione, nello stato di felicità più totale e più perfetto che si possa immaginare, al quale nulla manca e nulla può essere aggiunto. L’uomo intorno a noi ne è lontano, talmente lontano perché cerca al di fuori di lui il senso della sua vita. La dipendenza fa sì che un avvenimento esterno, la perdita di un oggetto o di un essere, ci mutila come se il nostro essere stesso fosse messo in discussione; l’esistenza è desiderio qualunque esso sia. Senza desiderio non c’é esistenza. Il desiderio che anima un uomo al momento della sua morte determina la sua vita nell’aldilà o in una nuova incarnazione. Ora se l’uomo vive di desideri, questi desideri sono spesso contraddittori, e ancora più spesso sconosciuti o inconsci. Il nirvana, la liberazione, è l’estinzione dei desideri; detto altrimenti, trovare la propria gioia e la pienezza in sé stessi, anziché cercarli al di fuori. E’ la fine di ogni sofferenza e di ogni pena. Ma come arrivarci? E’ qui tutta la questione.
Anzitutto occorre essere convinti che tutto ciò che ho detto è vero, convinto per propria esperienza. Se credo ancora che ci siano altri mezzi al di fuori della via per trovare questa pace, alla prima vera difficoltà sulla via prenderò un cammino trasverso. Queste difficoltà sono numerose e talvolta drammatiche. La più grave e’ che l’uomo ha bisogno di ciò che lo condanna a soffrire e crede, al contrario, di trarre da lì la sua energia e la sua possibilità di vivere. Ecco perché tutti gli insegnamenti spirituali, ad iniziare dai Vangeli, parlano così tanto di schiavi e di liberazione degli schiavi. Noi siamo tutti schiavi. Certi non possono negarlo: il morfinomane trova la sua strada nella morfina, ecc. ecc. o il fumo, o qualunque altra situazione. Ora tutti questi esempi sono chiari per tutti, ma noi dobbiamo scoprire che e’ sempre così. Noi ci aggrappiamo a ciò che ci impedisce di essere felice e di crescere interiormente. Il più spesso siamo prigionieri di ciò che costituisce la nostra riuscita o di ciò che noi consideriamo come le nostre migliori qualità. Se qualcosa non va, cioè se questo non va e se noi non siamo felici, è proprio dalla parte di ciò che non mettiamo in dubbio che bisogna cercare la causa del nostro problema, piuttosto che dalla parte delle nostre debolezze conosciute. Ognuno ha la sua droga: il proprio mestiere, la propria arte, la propria missione, l’opera della propria vita. Ognuno sa, anche coloro la cui esistenza non e’ riuscita, persistono a sapere. Felice colui che sa di non sapere perché la via si apre davanti a lui. Costui non dovrà attendere a lungo la presenza di un vero maestro, anche se dovesse trovarsi all’altro capo del mondo. Una disciplina e’ necessaria, ma non può essere fondata che su una visione e una comprensione giusta della verità.
Uno dei primi insegnamenti della via è che non si può comprendere e trattare alcun aspetto della vita separatamente: tutto è legato. Tutto reagisce su tutto. La mentalità moderna di specializzazione e di spezzettamento, si ritrova dappertutto. Uno vuole liberarsi delle sue emozioni senza prendersi cura del suo corpo, l’altro vuole capire in maniera nuova senza tener conto delle emozioni, l’uno pensa di poter guarire i suoi mal di testa senza curare l’insieme del suo organismo, un altro di poter trasformarsi interiormente, senza cambiare nulla delle sue condizioni esteriori di esistenza. L’idea del tutto è persa di vista. Ogni parte del tutto si articola e si ordina in rapporto alle altre, in una dialettica di causa ed effetto o di azione e reazione. Non si apprende il finito che nella sua relazione con l’infinito. Ogni problema particolare della vita, ogni difficoltà circostanziata, non può essere veramente risolto se non si capisce come tutto può essere risolto, e cioè qual è la realtà, la legge e il senso dell’universo e dell’uomo. Questo è l’insegnamento della Baghavad Gita: Arjuna è lacerato da un problema di guerriero, Krishna per aiutarlo a risolvere questo conflitto interiore, gli rivela un po’ alla volta la spiegazione di tutta la metafisica. Krishna mostra ad Arjuna che la risposta che aspetta non può essere che “la risposta”, qual’è il significato della vita umana.
Solo il riferimento ad un fine durevole permette di apprezzare il valore delle attività alle quali ci si dedica: professione, distrazione, vita mondana, sessualità. E’ accaduto a tutti sulla via di trovarci nella necessità di revisioni laceranti, sembrano laceranti finché la visione non e’ chiara, finché la comprensione è confusa. Una certezza intellettuale, quando è divenuta perfetta, passa immediatamente nel sentimento e l’azione ne segue come un’evidenza che porta infine la pace. Prima di trovare la sua applicazione al di fuori, lo sforzo si dirige innanzitutto verso l’interno e la prima scoperta è quella del meccanismo del nostro mentale e delle nostre emozioni. E’ una questione di attenzione: noi osserviamo che i nostri umori, emozioni, pensieri si susseguono dal mattino alla sera e ci portano interiormente qua e là senza che noi possiamo prevedere né dove né come. Ci aspettiamo certe gioie, certe qualità di sentimento, ed eccoci, invece, al contrario, frustrati e infelici. Oggi e’ inevitabile, non lo sarà più domani se lo vogliamo, ma occorre anzitutto vedere e capire esattamente cosa succede oggi.
Gli interessi si susseguono, appaiono, scompaiono. Noi ci accorgiamo di qualcosa, prestiamo attenzione a qualcuno poi dimentichiamo e il nostro campo di coscienza e’ occupato da un’altra immagine. Percepisco, dimentico. Percepisco, dimentico. Percepisco, dimentico. Anche chiuso nell’oscurità e nel silenzio, senza impressioni che vengono dall’esterno, continuo a pensare. Dormendo, sogniamo. Io penso e dimentico. Penso e dimentico. Semplicemente dimentico più o meno in fretta. Di fatto nulla e’ mai dimenticato, tutto e’ immagazzinato nel non manifestato, dove tutte le nostre impressioni, pensieri, atti, emozioni, sono non solo conservati ma collegati organicamente a formare un tutto coerente che il mentale solo non concepisce che per frammenti e opposizioni. Questo non manifesto è infinitamente più importante delle sue manifestazioni effimere. Il nostro conscio non è che una piccolissima superficie, comparata all’immensità e alla profondità dell’incosciente, soprattutto alla sua attività. Tutto ciò che e’ non manifesto cerca di esprimersi, tutto ciò che e’ represso cerca di esprimersi. Ciò che noi siamo oggi e’ il prodotto di ciò che abbiamo provato, pensato e fatto fin dall’origine. Ciò che e’ passato e’ passato. No, ciò che e’ passato rimane presente nel non manifesto, presente e attivo, ci segue dappertutto come la nostra ombra, e’ questo che il termine sanscrito Samskara designa. Gli sforzi, le meditazioni, gli esercizi per disciplinare il mentale non hanno nessun effetto reale e durevole se questo inconscio non e’ coinvolto. La via di accesso al non manifestato passa attraverso le sue manifestazioni. Piuttosto che cercare di colpo di scartare a qualunque costo i pensieri tramite la concentrazione, e’ più interessante e fruttuoso lasciarli apparire liberamente e prenderne coscienza. Non rifiutiamo il messaggio che ci portano e ciò che ci rivelano su noi stessi e ciò che noi siamo e vogliamo in verità, generalmente il contrario di ciò che crediamo.
Là giungo alla nozione fondamentale e vitale che è quella della vigilanza, essere presenti, attenti, coscienti, sapere ciò che succede in noi. E’ un’attitudine che si sviluppa e che cresce un po’ alla volta con l’esercizio e che è essa sola quella che ci permette di non essere più trasportati ciecamente da tutto ciò che ci tocca. La vigilanza è un’attitudine che non ha niente di granché spettacolare ma che cambia tutto. Noi dormiamo, ecco perché la nostra vita ci sfugge e si svolge da sola. Non capiamo perché non siamo felici e nella pace come vorremmo. Ma abbiamo una certa possibilità di attenzione, ecco il grande segreto. E questa facoltà può svilupparsi immensamente con l’esercizio. Prendiamo per esempio una collera, violenza, tensione, nervosismo. Si impadronisce di noi, modifica la nostra espressione, il nostro timbro di voce. Ci trasporta (porta con sé) e noi non siamo più da nessuna parte. E’ quando siamo calmi, sereni, pacifici, disponibili, che dobbiamo prepararci al futuro combattimento. Il criterio della verità di un momento è che noi ci sentiamo a nostro agio, bene nella nostra pelle, felici, e in questo momento prendiamo coscienza di noi il più profondamente possibile. Si tratta veramente di un risveglio, come se in noi una lampada si accendesse di colpo. Cristo ha detto: l’occhio è la lampada del corpo, l’occhio interiore, quello dell’attenzione. Noi sperimentiamo (proviamo) “io sono”.
Non si tratta di un’analisi che tagli tutto a pezzi, è semplicemente essere coscienti di ciò che in noi non cambia, di ciò che non e’ toccato (influenzato) dall’emozione e dagli umori. Questi momenti di coscienza (consapevolezza) gli insegnamenti li chiamano momenti di ricordo, ci si ricorda di sé stessi, del proprio scopo, del senso della nostra vita. In questi momenti privilegiati di presenza a se’ stessi, a noi stessi, noi possiamo ricordare la nostra possibilità di essere presi, e dunque possiamo prevenire.
Vigilare, vegliare è ricordarsi.
E’ una chiave fondamentale. Se nei momenti in cui non siamo trasportati, in cui siamo padroni di noi stessi, stabiliamo coscientemente un legame tra la nostra calma e la nostra agitazione (emportement), inversamente ci sarà possibile, quando saremo ad esempio all’inizio di una collera, stabilire un legame con i nostri momenti di calma, con la libertà e la verità che sono in noi.
Vegliare e’ ricordarsi.
E’ nel momento in cui siamo trascinati, o quando sentiamo che stiamo per esserlo, che occorre ricordare e non lasciarsi sfuggire l’occasione. Se studiamo i diversi insegnamenti esoterici, vediamo l’importanza di questo termine, ricordarsi. Si ritrova in tutte le lingue e in tutte le religioni. Ricordarsi del proprio fine, o di Dio, o di sé stessi, e’ avere in sé qualcosa da mettere di fronte all’ipnotismo della vita e dei suoi avvenimenti. Cosi’ si stabilisce a poco a poco in noi un centro permanente, intorno al quale si riordina la nostra esistenza e che ha il diritto di dire io, di dire un vero sì o un vero no. E’ solo questo io unificato che può crescere, diventare più vasto, trasformarsi e accedere ai livelli superiori di coscienza. Un essere parziale non può avere una vera via spirituale, né raggiungere una certa qualità di pensieri, di sentimenti e di sensazioni, è condannato a oscillare, seguendo emozioni che non controlla e il cui meccanismo gli sfugge. Ma se lo vogliamo veramente e’ possibile un combattimento tra un’attitudine interiore di libertà e di riconciliazione con le circostanze e un’attitudine di tensione e di conflitto con le circostanze stesse.
Ripeto ciò che ho sviluppato a lungo nel capitolo “Osare dire si'” del primo libro di questi “Chemins de la Sagesse”. L’uomo vive in conflitto con gli avvenimenti: ah, no, non dovrebbe essere cosi’, ah, no non dovrebbe fare questo. Questa attitudine, che e’ il contrario dell’amore, e che manifesta l’aggressività, crea in noi una divisione tra chi riconosce “è così” e chi rifiuta “ma non può, non deve essere così”. Naturalmente, questo meccanismo sfugge completamente all’uomo addormentato, all’uomo schiavo, ma l’uomo che veglia ne è cosciente. La grande conversione interiore, quella che ci salva, ha luogo quando il no a ciò che è, diventa sì a ciò che è. Le cose stanno come sono (sono quelle che sono) ed io unificato come agisco dunque e non più reagisco. Si stabilisce cosi’ un po’ alla volta questo amore di cui Cristo o Buddha hanno tanto parlato e che costituisce la nostra libertà, la nostra possibilità di crescere. Finche’ “Tizio mi innervosisce”, “Tale e’ un deficiente”, è la nostra prigione, ci impedisce di progredire e ci degrada.
Facciamo intanto (anzitutto) un po’ conoscenza con il nostro corpo. I suoi movimenti, le sue contrazioni, la sua possibilità di rilassamento costituiscono un vasto campo di studio. L’ignoranza che l’occidentale ordinario ha del suo corpo è qualche cosa di spaventoso. Gli sport non ne danno che una conoscenza grossolana e limitata, solo la danza, la pratica dell’hatha-yoga o del taichi cinese, danno ad alcuni una conoscenza un po’ migliore di questo corpo. Il corpo, che cambia certo, ma che cambia molto meno in fretta dei pensieri e delle emozioni, costituisce un punto di appoggio molto importante. C’è un legame stretto fra il corpo, nervi, plessi, ghiandole endocrine, respiro e le emozioni. Dunque un certo modo di essere nel proprio corpo, di conoscerlo dall’interno, si dimostra indispensabile. Da qui la necessita’, su tutte le vie, di un minimo di yoga fisico, tenuta della colonna vertebrale, centro di gravità nell’addome, rilassamento muscolare qualunque sia la posizione. Anche il corpo può e deve, essere trasformato. E qui, subito, ci scontriamo con un apparente paradosso: é all’interno del corpo che si rivela una realtà che trascende il corpo, che trascende la coscienza limitata del corpo. All’interno e grazie al corpo. Se la meditazione e’ lo sforzo per prendere coscienza di ciò che in noi non cambia, è anche lo sforzo per prendere coscienza di ciò che in noi può sussistere dopo la morte del corpo fisico, ciò che può essere immortale.
Una volta ancora, ritorno al nostro punto di partenza per vedere come, dopo, crescere a partire da là. Il nostro punto di partenza è la nostra sottomissione al nostro corpo, il cammino è la nostra liberazione progressiva in rapporto al corpo, di cui noi diveniamo il maestro. Il corpo è sia un’ostacolo, sia un alleato. Il corpo può essere una prigione o può essere un tempio. Il corpo può essere un tiranno o un meraviglioso servitore. Noi non dobbiamo né obbedirgli, né maltrattarlo, ma dirigerlo, come un cavaliere porta il suo cavallo, questo ci dice il simbolo del Centauro.
Il fine è sopraumano, sopranormale, trascendente (dal limitato all’illimitato, dalla molteplicità all’unità, dalla morte alla vita eterna, ma il cammino esige la partecipazione della totalità di noi stessi. Non è possibile progredire, unificarsi, divenire liberi, senza un nuovo funzionamento dell’organismo. La liberazione non è soltanto la soppressione dei conflitti conducente a una pace che noi possiamo concepire già da oggi, gioia, serenità, riconciliazione con sé stessi non più contraddirsi. C’è ben più di questo, dei livelli di essere, dei mondi, dei piani della realtà, chiamateli divini, sublimi, sopranaturali, come volete, che ci aspettano e che sono il senso dell’esistenza umana, anche se il 99% degli uomini se ne disinteressano.
Nella misura in cui progrediamo sulla via, nuovi, ulteriori aspetti di noi stessi diventano indegni di noi, è indegno di un ricercatore spirituale accettare che il suo organismo rimanga sottomesso a delle insufficienze come la stitichezza, l’aerofagia, il mal di testa, fiato corto, male nella schiena, tanto più che questi disturbi hanno un aspetto vitale e psichico molto profondo. E’ indegno di un ricercatore della verità vivere con i lassativi, gli analgesici, tutte le pillole, tutte le supposte, perchè sono degli ostacoli sul cammino dell’unità, dell’unificazione e della liberazione. Dunque anche il corpo deve essere trasmutato, reso più limpido, associato al cambiamento di tutto l’essere. E’ perfettamente possibile. Conosco molta gente, molte persone che vivevano nei malesseri e nelle medicine e che l’igiene e lo hatha-yoga hanno completamente trasformato.
A partire dalla docilità, dalla sottomissione del corpo fisico mortale, inizia una vita sempre più affrancata dal corpo. Le relazioni sensoriali attraverso la vista, il toccare, l’ascoltare, lasciano spazio a una comunione più sottile o più fine, dove l’autentico sentimento di non essere che uno diventa percepibile. Qui tocco un campo che è stato chiamato parapsicologico, extrasensoriale, sottile, metapsichico, ma che il più sovente è affrontato con una orientazione falsata, vale a dire cercando fuori, ciò che deve essere trovato dentro.
L’unità organica di tutta la natura, di tutta la manifestazione, in pratica ci sfugge, anche se la scienza contemporanea la conferma. Anzitutto noi non teniamo conto che del piano fisico, o materiale o grossolano o di fatto sensoriale. Poi non capiamo in quale maniera facciamo parte dell’Universo. Come tutto il resto, ciascuno di noi è una forma particolare di un’unica energia. Ho citato, nel primo volume di quest’opera, il paragone con l’oceano, vasto e duraturo e delle onde molteplici ed effimere. Posso prendere anche quella delle foglie dello stesso albero: se due foglie avessero una coscienza di sé stesse e volessero comunicare fino a sentire che formano un tutt’uno, nessun tentativo di raggiungersi all’esterno permetterebbe loro di riuscire, anche se potessero toccarsi e incollarsi l’una contro l’altra, sarebbero sempre due. Ma se nello stesso tempo in cui esse si riconoscono fisicamente come due, ciascuna prende coscienza della sua appartenenza allo stesso albero, alla stessa vita, ecco che realizzerebbero la loro unità. Ecco perché un detto bengalese, proclama che “l’amore chiude la porta del fuori e apre la porta del dentro”.
E’ rientrando in noi stessi, aprendoci alla sorgente in noi di tutta la vita, unendoci a ciò che in noi è universale o soprapersonale, che noi possiamo comunicare o metterci in comunione con l’altro, non proiettandoci al di fuori verso di lui, che sia fisicamente o psichicamente. Il fine dell’incarnazione umana è realizzare una vita sempre più libera dal corpo, dai pensieri e dalle emozioni strettamente legate a questo corpo attraverso il sistema nervoso, le ghiandole, l’assimilazione del cibo, ecc. Una vita che finisca per essere così libera dal corpo, che la morte di questo corpo non le toglie niente. E’ rarissimo, ma non impossibile. Realizzare la propria vita è essere pronti a morire coscientemente.
La meditazione, liberandoci poco a poco dal piano puramente fisico in cui vive tutta l’umanità occidentale contemporanea, ci insegna che la corrente dell’esistenza maschera, ci nasconde delle percezioni o delle realtà di un ordine superiore. Ma per essere liberi dal corpo occorre anzitutto accettarlo completamente, senza pensare che nulla sia trascurabile, volgare, disgustoso. Uno degli apporti preziosi di Freud è stato l’aver dimostrato l’importanza di dettagli ai quali il pudore menzognero rifiuta di interessarsi. In noi tutto è legato. Tutto reagisce su tutto e nessun dettaglio è insignificante o senza valore per colui o colei che cerca di conoscersi e vuole divenire libero e cosciente.
Occorre dare tutta la loro importanza alla respirazione, sola funzione istintiva sulla quale abbiamo immediatamente la possibilità di intervenire, e al rilassamento muscolare. In molti monasteri orientali, specialmente buddhisti, l’attenzione ai movimenti è un esercizio quotidiano. Mi alzo coscientemente, cammino coscientemente, mangio coscientemente, respiro coscientemente. Non raccogliere nemmeno un filo d’erba senza sapere che lo si sta facendo e perché lo si fa, mi ha detto un giorno il mio maestro. Fare ciò che si fa, essere nel proprio gesto, anziché pensare ad altro nello stesso tempo. Con l’esercizio questa vigilanza puo’ svilupparsi al punto di diventare naturale e quasi permanente. Ma all’inizio della via quanto ne siamo lontani. Siamo talmente presi da tutto ciò che facciamo, che non siamo più da nessuna parte.
E se siamo portati dai nostri movimenti, lo siamo ancora di più dalle nostre emozioni, siano la gioia, la sofferenza o la collera. Per lungo tempo noi non abbiamo alcuna possibilità di impedire alle emozioni di nascere, ma possiamo, accettandole, viverle coscientemente, senza scomparire completamente. E’ quando l’emozione inizia che la vigilanza è particolarmente necessaria. Solo questa partecipazione attiva alle emozioni permette di mantenere un equilibrio interiore e una permanenza attraverso gli umori mutevoli e spesso completamente contraddittori, che si succedono e si impongono a noi. Il saggio non ha più emozione, per quanto ripugnante, scandaloso, spaventevole sia l’avvenimento di cui è testimone. All’uomo ordinario sembra inconcepibile e probabilmente inammissibile; mal compresa questa libertà può sembrare durezza, aridità di cuore, inumanità ed è invece il contrario: le emozioni sono inutili. Credete che un medico che fa la sua visita in ospedale e che ha delle reazioni personali di fronte a ciascun malato, sia un medico migliore o meno buono? Può compiere il suo dovere un dottore che inizia ad essere disgustato perché vede una donna alcolista, ubriaca, con un viso gonfio, iniettato di sangue e che è poi sul punto di piangere perché trova poi una ragazzina morente che lo guarda con grandi occhi disperati? Meno un medico ha emozioni di fronte ai suoi malati e più può essere un buon medico. Questo non ha nulla a che vedere con l’egoismo. Meno reazioni ed emozioni abbiamo, più siamo capaci di comprendere, di amare e di aiutare. La sola verità del non egoismo è l’azione è ciò che noi facciamo per gli altri, per loro, non come manifestazione della nostra emozione personale. L’emozione comporta sempre dei giudizi, delle concezioni, delle considerazioni, che sono l’espressione del nostro egoismo. Ognuno giustifica le sue emozioni dicendo: “Ma non sono mica una pietra! Non sono mica una bestia, un bruto! Sono un uomo, una donna sensibile, che sente, che partecipa.” Non è vero. Noi non partecipiamo, noi ci separiamo, tramite le nostre emozioni. Se voi non riuscivate a dormire dopo aver visto le foto del Biafra, non e’ stata la sofferenza dei bambini del Biafra che vi ha impedito di dormire, è stata la vostra. La sola cosa, il reale interesse per i bambini in questione, è la somma di denaro che voi avete donato alla Croce Rossa o a qualche associazione di soccorso.
Ogni atto di altruismo o di generosità, che è l’espressione di emozioni e di pensieri, che sono portati dall’emozione e dunque dall’egoismo, non ha valore. E’ per questo che, con tanta buona volontà e tante buone intenzioni, tanta certezza da tutte le parti di essere nella verità e di fare il bene, che il mondo va cosi’ male. Come può esserci così tanta confusione, cecità, conflitti, se non c’é un errore enorme da qualche parte? Questo errore non concerne gli altri, concerne noi, ciascuno di noi individualmente. Questo errore è giustificare le nostre emozioni che ci condannano a vivere unicamente nel nostro mondo e mai nel mondo. E’ a causa delle emozioni che noi oscilliamo incessantemente, che noi siamo trasportati. Il saggio rimane uguale a sé stesso perché è tutt’uno con i cambiamenti intorno a lui. Ogni volta che proviamo un’emozione o una reazione molto forte, ne rendiamo responsabile il fatto esterno, l’avvenimento. Quando invece la responsabilità è in noi e unicamente in noi e che l’avvenimento, l’incidente è là soltanto a titolo secondario, cioè a titolo di causa eccitante, scatenante. Noi portiamo in noi, allo stato latente, la possibilità di certe emozioni. Ciò che è non manifestato è altrettanto reale allo stato potenziale che ciò che è manifesto. Si può perfettamente concepire che lo stesso avvenimento non avrebbe provocato alcuna reazione o una reazione completamente diversa in qualcun altro.
Mi domando quale termine potrebbe designare lo stato che è al di là delle gioie e delle sofferenze: felicità, beatitudine, serenità, pace. Ma cosa importa la parola, dal momento che non sappiamo di che cosa si tratta. Un sentimento stabile, permanente, indipendente da tutti i fattori esterni. Finché noi sapremo, più o meno confusamente, che la nostra gioia dipende da qualcosa di esterno che può esserci tolto, non sarà mai una gioia perfetta. Abbiamo una gioia o noi siamo la gioia? Ciò che siamo non può esserci tolto.
Per un certo tempo noi stiamo bene e pensiamo: ” Ah! bene! va bene” poi di colpo qualcosa, angoscia, collera, ritorna con una forza terribile, un bel giorno finiamo per capire che ciò che è necessario è che ci sbarazziamo del non manifesto. Poiché gli shock esterni obbligano ciò che non è manifesto, cioè nascosto, ma che è tuttavia ben presente, a manifestarsi. Il non manifesto è inconscio. Inconscio, vale a dire sconosciuto. Quando qualcuno dice “Coscientemente voglio questo, ma incoscientemente non lo voglio”, queste parole sono un non senso. Ciò che è inconscio è ignorato, non conosciuto. E questo non conosciuto ci rende suscettibili di emozioni e dunque schiavi, e dunque ciechi. Per essere liberi un giorno dalle emozioni, occorre accettarle adesso. Accettando completamente un’emozione, diventando coscientemente uno con essa, noi le togliamo il suo potere su di noi. Quanto al mentale stesso, non è là, come indica il suo stesso nome, che per mentirci e condurci, non importa dove, salvo che alla verità. Occorre aver lottato durante anni con la propria illusione e le proprie menzogne involontarie, per sapere fino a che punto ciò che dico è vero. Il mentale è la superficie che si oppone alla profondità, al cuore. Nel cuore tutte le impressioni sono collegate, tutto è uno. Il mentale crea la divisione e la contraddizione. Certo, l’approccio intellettuale della realtà è giustificato, ma non può sopraggiungere che allorché ogni emozione sia scomparsa. Finché c’è emozione, il pensiero è il prodotto di questa emozione. E’ dunque un pensiero falso, un pensiero cieco, un pensiero che è maya, che e’ avidhya, non vedere, un pensiero separato dal reale. Se noi fossimo assolutamente nella verità, l’emozione scomparirebbe. E’ la legge. Accettandoci tal quali siamo, un approccio giusto al mondo esterno diventa possibile. Fondato sul desiderio, più forte di tutti gli altri, di vedere le cose e gli esseri tali quali sono. Di andare al di là della loro apparenza per essere in relazione con la loro essenza. Non si tratta più di domandare agli altri che rispondano alle nostre attese, ma di dare ad essi il diritto di esser come sono e di amarli come sono.
Devo qui parlare di un punto delicato, la cui esposizione, fino ad oggi, ha fatto più male che bene, in occidente: gli stati superiori di coscienza o samadhi. L’esperienza mostra che il pensiero discorsivo e la comprensione intellettuale non risolvono i problemi vitali. Si può essere uno specialista del buddhismo, del Vedanta, o di qualunque altra cosa, senza essere assolutamente libero dai propri desideri e dalle proprie costruzioni mentali. Il samadhi è un’intuizione immediata della verità o della realtà che sola può liberarci dall’attaccamento. Il samadhi è il coronamento della meditazione e richiede una concentrazione dell’attenzione di fatto completamente eccezionale. Il mezzo efficace per sviluppare la concentrazione fino al livello necessario, è di far scomparire gli ostacoli a questa concentrazione, piuttosto che cercare di coltivarla in sè stessa. Questi ostacoli sono giustamente, la ricchezza e l’agitazione del non-manifesto, e non ci se ne può liberare che lasciandoli salire alla superficie, lasciandoli esprimere e perdere il loro potere di fronte alla luce della coscienza. La sensualità, l’aggressività, il torpore, le preoccupazioni, i dubbi, la vanità, sono gli ostacoli segnalati in tutti gli insegnamenti, ma non sono che i prodotti di sorgenti più profonde. E’ vano volerli reprimere per forza per poter meditare. Occorre farli diminuire e morire un po’ alla volta. L’esistenza umana è allora una rigenerazione, altrimenti è una degradazione, un degenerare.
Noi ci costruiamo o ci distruggiamo noi stessi. Tutto ciò che oggi pensiamo, diciamo, facciamo, ascoltiamo, vediamo, costituisce ciò che sarà il nostro essere domani. Noi siamo oggi gli autori del nostro destino di domani. Là abbiamo, tuttavia, una certa possibilità di intervento, anche se il nostro essere oggi è il risultato di ciò che noi abbiamo vissuto ieri.
Se io mi attengo all’ambizione, ai piaceri, all’aggressività senza fare spazio allo spirito di sacrificio, all’amore disinteressato, allo sforzo per conoscerci, e che inoltre non cerco nemmeno di capire quale può essere il senso dell’esistenza umana, è certo che la qualità d’essere che mi preparo per l’avvenire sarà mediocre, qualunque sia la mia riuscita apparente nella vita. Ed è altrettanto certo che non posso aspettarmi né la pace, né la vera felicità, che sono patrimonio dell’essere e non dell’avere. Nessuna visione parziale è giusta, poiché tutto dipende da tutto. L’attitudine che permette di progredire nella conoscenza di sé, è il contrario di quella che vuole isolare e immobilizzare un fenomeno per analizzarlo tranquillamente. La legge fondamentale da riconoscere è che nulla, né pensiero, né emozioni, né avvenimenti, ne’ azione, nulla si produce indipendentemente, tutto e’ dipendente da una o più cause e condizioni o circostanze. E’ evidente e credo, che nessuno lo metta in discussione. Però occorre anche trarne tutte le conclusioni che si impongono. Naturalmente le cause e le condizioni non sono statiche, ma sono esse stesse instabili, in stato di cambiamento e impermanenza.
Poiché il nostro mentale funziona immobilizzando e separando, ci è difficile percepire la vita come una totalità in movimento e, in più, dove alcun elemento non ha in sé stesso alcuna realtà. La sola realtà indipendente e’ il vuoto. Questo si produce perché si è prodotto questo, che si è prodotto perché’ si e’ prodotto quell’altro, ecc. Il cavallo di Madama la Marchesa e’ morto perché’ sono bruciate le scuderie, le scuderie sono bruciate perché’ il castello ha preso fuoco, il castello ha preso fuoco perché le candele sono cadute sulle tende, le candele sono cadute perché’ il marchese le ha trascinate nella sua caduta, il marchese e’ caduto perché’ si è suicidato, il marchese si e’ suicidato perché’ era rovinato, ecc., ecc., ecc. Ecco come nella mia infanzia, un comico predicava senza saperlo, suppongo, i fondamenti stessi dell’insegnamento di Buddha. Non c’è nulla che non sia un momento di una catena di cause ed effetti. Nulla accade che non derivi da altre cose e nulla accade da cui altre cose non prenderanno origine. Diciamo semplicemente che la maggior parte del tempo le relazioni fra le cause e gli effetti ci sfuggono completamente. Ma questo modo di vedere che impregna tutti gli insegnamenti tradizionali, si ritrova nelle differenti scienze contemporanee. Quando parlo di causa ed effetto, è ben inteso che non è possibile isolare, o rendere reale, o indipendente, alcuna causa o alcun effetto. D’altra parte occorre sempre parlare di cause o di effetti, al plurale. Non c’è un dettaglio insignificante nella nostra vita, non c’è un gesto inutile, un pensiero futile che abbia un’esistenza indipendente, che accada cosi’, fortunosamente, senza relazione con qualsiasi cosa d’altro. In maniera relativa, mentre scrivo queste pagine in un piccolo ashram vicino a Ranchi, nel Bihar, ho sotto gli occhi, un arbusto, dei fiori, una donna in sari che pulisce i piatti con della sabbia. In senso assoluto non c’è ne’ arbusto, ne’ fiori, ne’ donna. Questo arbusto si e’ trasformato dall’inizio del monsone, questi fiori non erano là quando io sono arrivato e non saranno più la quando io partirò; questa donna è una successione di gesti che percepisco, di pensieri che ignoro, di emozioni che indovino. Questo arbusto non è che un’espressione, una forma di un’energia più vasta di lui. Se io non mi attacco all’arbusto, se non mi aspetto niente da lui, posso percepirlo come il momento di un divenire, di un flusso, dipendente dall’aria, dalla terra, dalla pioggia, dal giardiniere. Percepisco, al di là dell’arbusto transitorio, un’energia fantasticamente intensa, illimitata, eterna. Ascolto il linguaggio della creazione. Ma se l’arbusto in sé stesso diventa per me importante, questa visione scompare. E’ l’attaccamento che ci rende ciechi alla realtà ed è questa cecità che ci mantiene nell’attaccamento. Questo attaccamento si esprime attraverso “Io voglio e io amo, cioè mi piace”, esattamente il contrario dell’amore vero. Che in francese, ma possiamo dire anche in italiano, la stessa parola amore traduca i due termini sanscriti di moha e prem, non ci facilita un approccio più chiaro alla questione. Anzitutto, questo attaccamento rifiuta di accettare l’impermanenza e la trasformazione. E’ assoluto, radicale: Io non accetto che tutto sia transitorio. Ora non esiste una affermazione generale che non abbia una sorgente particolare, un avvenimento preciso il cui ricordo è conservato nell’inconscio. In amore si è sempre traditi, ad esempio, significa, una volta ben precisa, fosse all’età di tre anni o di tre settimane, io sono stato tradito in amore. Allo stesso modo il rifiuto del cambiamento generale, è l’espressione del rifiuto totale di un certo cambiamento preciso avvenuto nella nostra infanzia e vissuto come intollerabile o terrificante e completamente ricacciato nell’inconscio. Finché la sorgente particolare di questo rifiuto generale non è stata ritrovata, rivissuta e liquidata al prezzo di un abbandono eroico dei meccanismi di negazione e di repressione, non c’è alcuna possibilità per l’individuo di fronteggiare la legge universale dell’impermanenza e di parteciparvi gioiosamente. Il no a ciò che è mantiene la sua onnipotenza. Così la realtà è l’instabilità, il flusso incessante, ma un altro più potente di noi stessi, in noi, rifiuta di ammetterlo. Talvolta, malgrado i tentativi ripetuti per stabilire un legame fra i momenti di coscienza di sé nella calma e i momenti di trasporto o di emozione, questo sforzo si manifesta come impossibile. E gli sforzi rinnovati ci convincono del nostro fallimento, l’emozione è molto più forte di noi.
Viene un giorno in cui non possiamo più continuare così, è al di sotto della nostra dignità, questa schiavitù diventa la nostra vera sofferenza che non può più compensare o mascherare alcun successo esteriore, né alcuna pena passeggera. Allora ci poniamo la questione: Perché? Perché é così? Colui che pone la questione perché ha già messo il piede sul cammino della liberazione, vuole trovare la causa, la sorgente. Se il nostro no, il nostro rifiuto, la nostra aggressività, rimangono più forti di noi, occorre trovare la risposta al perché.
L’umanità ordinaria si divide in due categorie di esseri: coloro nei quali la forza più potente di essi stessi si esprime con vieni e coloro nei quali la forza più potente di essi stessi si esprime con vattene. Ancora una volta occorre ritornare al dato essenziale: dualismo e non dualismo. Il saggio, stabilito nella non-dualità sente tutto l’Universo come contenuto all’interno della propria coscienza. Non c’è altro da lui. Lui è in tutto e tutto è in lui, al contrario, l’uomo ordinario, sottomesso alla credenza nella separazione, vive nel desiderio e nella paura a causa di tutto ciò che non è lui, sia esseri, sia cose. Per compensare questo dramma del me e non me, due reazioni sono possibili, di cui l’una o l’altra predomina a seconda degli individui. La prima consiste nel prendere, possedere, fare proprio, ed è quella che designa generalmente la parola amore. La seconda, a negare, distruggere, uccidere, realmente o simbolicamente, ciò o colui che marca il mio limite, ed è ciò che si chiama odio. In entrambi i casi, la presenza dell’altro come altro da me è rifiutata. Le due reazioni, in apparenza così contrarie, hanno lo stesso fine: annullare la dualità, ristabilire l’unità, l’unicità. Il tipo di reazione si radica nelle profondità dello psichismo. La dualità provoca la paura, ma questa paura è talvolta quella di essere abbandonato, talvolta quella di essere ucciso. L’una o l’altra esiste in noi allo stato latente e si rivela quando è eccitata, risvegliata da una causa esterna. Naturalmente in ogni essere umano le due tendenze coesistono, ma l’una si manifesta generalmente, mentre l’altra non si manifesta mai. Colui o colei che, in una divergenza di opinioni con l’altro, si sente abbandonato e la cui attitudine è quella del torna, vieni, vuole lo stesso, incoscientemente, uccidere colui o colei che lo abbandona. Colui o colei che, nella stessa situazione di disaccordo, si sente aggredito e il cui comportamento é quello di vattene! inconsciamente, supplica l’altro di non lasciarlo. Se noi non abbiamo alcuna possibilità di padronanza su una certa situazione tipo, è che ogni volta noi non viviamo la situazione ma un’altra, marcata, impressa in noi nell’infanzia. Un bambino si é sentito abbandonato da sua madre, diventato adulto é in angoscia ogni volta che sua moglie é in ritardo o manifesta un disaccordo anche su un dettaglio secondario. Una bambina é stata, anche fosse una volta sola, aggredita da suo padre o sua madre, divenuta donna si sente inconsciamente minacciata di morte perché suo marito le fa una critica, magari insignificante. Alcuni si sentono messi in questione perché un amico non risponde a una lettera, altri perché una lettera non è quella che si aspettavano. Alcuni si sentono sempre uccisi dall’abbandono, altri uccisi dall’aggressività. A gradi diversi tutto il mondo rientra in una delle due categorie. Tutti sono prigionieri del passato. Una moglie dice al marito Mi assento due minuti poi mettendosi a fare i piatti o a pettinarsi non ritorna nella camera che venti minuti dopo e se – per esempio, è un esempio molto corrente e banale – suo marito è un figlio maggiore che ha perduto la sua mamma a causa della nascita del secondo, non c’è in camera un adulto la cui moglie ha cambiato parere, ma nel corpo di un adulto, un bambino che sua madre, la madre che lui conosceva, che era tutto per lui, ha abbandonato e non è mai più ritornata.
Se un uomo di trent’anni ha voglia di picchiare il falegname che ha sbagliato la sua biblioteca, se lo vuole uccidere, é per difendersi perché crede di star per essere ucciso. Ma chi, chi vuole uccidere oggi perché si é sentito assassinato un tempo? In questi istanti non bisogna accontentarsi di dire che é l’avvenimento esterno che é responsabile, e che é normale aver reagito così violentemente. Quando un adulto reagisce violentemente, fuori dalla proporzione con la situazione, é che le persone o gli avvenimenti, gli fanno ben più male, infinitamente più male di quello che gli facciano apparentemente a degli occhi esterni. Lo possono comprendere soltanto quelli che hanno vissuto questi meccanismi in sè stessi e che se ne sono liberati. Cosa che non é assolutamente facile, anzi. La vita o la manifestazione, é un perpetuo cambiare. Per il saggio, tutto questo é come una festa, una festa eterna di novità. Tutto é nuovo, tutto il tempo, sempre, dappertutto. L’uomo ordinario, invece, ha in sé la nostalgia di una volta, dell’infanzia, del buon vecchio tempo, o proietta sull’avvenire la paura del passato. Porta e trascina dappertutto con sé il peso, il fardello del passato. Non è mai perfettamente nel presente, meno che mai nell’eterno presente (timeless time). Essere libero dal passato é altresì essere libero dal futuro, libero dal tempo, libero dalla causa e dall’effetto, libero dalla molteplicità. Liberarsi del passato, un passato che risale ben al di là di questa vita, è in questo che consiste essenzialmente la via.